Il nostro collaboratore e opinionista Paolo Ferrara ricorda, con un suo omaggio, l’amico artista Cosimo Barna, morto la scorsa notte. Riceviamo e pubblichiamo.
Della grandezza artistica di Cosimo Barna non c’è alcun bisogno di spendersi a parlare: è nota a chiunque conosce l’arte contemporanea internazionale, e lo è a tal punto da essere stata più volte oggetto di Tesi di laurea. Inutile, dunque, elencarne le mostre, le installazioni, le collettive. Basta dire “Cosimo Barna”, qui a Milano soprattutto. Cosimo lo conoscevo da sempre, ma gli undici anni di differenza tra noi ci ponevano in giri di amicizie diverse. Questa distanza si è compressa solo quando, dieci anni dopo di lui, arrivai anch’io a Milano. Se si ha dentro di sé la convinzione che non si debba mai scendere a compromessi a discapito delle proprie idee di libertà, per me, che arrivando nel 1982 in una città come Milano avevo appena diciannove anni (età, diciamolo, in cui si è ancora ragazzini), la più grande fortuna è stata potere essere al fianco di un uomo come Cosimo. Arrivavo da Sciacca, da un mondo comunque edulcorato. Milano è, però, tutt’altra cosa; ma è qui che devo mettere a frutto gli insegnamenti morali della mia famiglia. Fu così che quelle idee, già in nuce, trovarono chi le innaffiava con i giusti consigli, datimi affinché esse non si andassero a frantumare contro le insidie di una città quale Milano era in quegli anni, quelli della “Milano da bere”, piena di lustrini e di falsi e pericolosi specchietti per le allodole. Frequentandolo, man mano capisco che Cosimo è persona certa delle proprie passioni; un sentimento interiore che, spesso, è superficialmente ridotto a essere considerato “carattere spigoloso e presuntuoso”. Il suo studio di Via Grossich è a due passi dalla Facoltà di architettura. Inizio a frequentarlo. Mentre dipinge, Cosimo parla, ma non è un “parlare” autocelebrativo tendente a esaltare le sue opere. Piuttosto, tocca temi inerenti le istanze sociali, soffermandosi sul rapporto che l’arte impone all’artista di intessere con esse. Parla di ciò che il cosiddetto “impegno civile” debba realmente essere, di come metterlo in pratica. “Impegno civile” è espressione che ritroverò poi in Bruno Zevi, maestro di architettura. Cosimo parlava, io mi guardavo intorno. Quando si frequenta un artista si deve entrare in empatia anche con il suo “luogo”, quello in cui crea, e con gli oggetti che rendono “contesto” quel “luogo”. Ci si deve guardare attorno, afferrare nelle opere già finite quella passione che in esse è stata trasfusa; infine, introiettarla in se stessi. Non c’era mia domanda sul significato delle sue opere che non avesse risposta esauriente. E sia chiaro: intendo per “esauriente” quel qualcosa che ci fa “sentire” di avere accresciuto la nostra personale cultura, consci che chi ci sta parlando ne ha molta più di noi. Il sottofondo della radio e delle audio-cassette era fondamentale perché durante le pause riflessive – quando entrambi stavamo in silenzio, lui a dipingere, io a osservare- era il continuum del discorso intessuto. Ascoltandolo, e dibattendo con lui, ho capito che nulla avrebbe dovuto mai impedirmi di esprimere le mie opinioni. Tanto ciò è vero che proprio con lui, negli anni, ho avuto spesso duri confronti, ma che si sono sempre rivelati proficui. Mi ha insegnato a sapere distinguere, del mondo artistico/culturale, cosa e chi evitare, cosa e chi coltivare: evitare i presuntuosi e la presunzione; coltivare, oltre la personale preparazione, i rapporti con chi ha passione per ciò che fa. Personalmente, penso che la capacità assoluta di Cosimo sia stata il sapere trarre l’anima ai colori. L’anima, non la cromaticità: perché non è per nulla facile riuscire a imprimere tridimensionalità e quadridimensionalità dipingendo sempre in bidimensione. E ciò è maestria solo di chi lo si fa solo ed esclusivamente se si riesce a trarre l’anima al colore. Ecco: Cosimo sapeva “trarre l’anima”, non solo all’arte ma anche alle persone. La sua canzone preferita era “Uno su mille”, di Morandi. L’ascoltavamo spesso, fosse nel suo studio o fosse durante le interminabili “passeggiate” con la sua mitica Renault 4 rossa e, dopo, con l’Opel bianca. “Passeggiate” sempre fatte in luoghi pregni di cultura quali, per esempio, in Sicilia quelli del terremoto del Belìce. Ci siamo stati più volte, e tra i ruderi di Poggioreale, il Cretto di Burri e Gibellina Nuova (ove è installata una delle sue più belle opere) si rifletteva insieme su quanto la Sicilia fosse terra in grado di dare stupendi frutti di ogni genere, ma che i siciliani non sapevano -e, soprattutto alcuni (leggasi: certi politici e i mafiosi), non volevano- coltivare. Lui ha colto il mare quale uno dei frutti splendidi della nostra terra. Di esso ha fatto una narrazione assolutamente inedita, piena di significati che hanno il preciso obiettivo di farci riflettere sul valore che ha il sapere dare la giusta valenza alle risorse che la natura ci ha donato. L’arte è immortale allorquando il messaggio di cui è portatrice rappresenta le istanze del momento in cui l’opera è creata. Se queste istanze sono ciò che realmente l’artista “sente”, ecco che la sua opera diventa “arte”. Cosimo “sentiva” le istanze dei tempi, sempre, da quelle degli anni ’70 e sino a oggi, passando dal fondamentale crocevia della Brown Boveri, anno 1984, che lo fece conoscere tra i maggiori artisti dell’arte contemporanea. Ho capito man mano, sentendoglielo più volte ripetere, che “uno su mille ce la fa” non significa farcela nel “successo” e nel conto in banca: significa lottare per le proprie idee potendo dire, alla fine, come dice la canzone: “non ho barato né bluffato mai”. Tu non lo hai mai fatto. Grazie, “Maestro”.
Paolo Ferrara