“Stavamo operando, il pavimento ci ballava sotto i piedi. Sentivo accanto a me la suora assistente che recitava le sue preghiere, mentre mi porgeva i ferri, attenta e precisa come sempre. ‘Madre di Dio, misericordia’, diceva, e le altre suore che erano con noi rispondevano ‘Amen’. Eravamo in sala chirurgica, dalle 8 del mattino. Non c’era un momento di sosta, fra un intervento e l’altro: finito di operare un ferito, ne arrivava subito un altro, qualche volta ce ne portavano due insieme e non c’era tempo da perdere, perché quasi tutti erano in fin di vita. Però li abbiamo salvati e ora stanno bene. Quel giorno era lunedì, operammo senza mai fermarci, fino a mezzanotte”.
È questo il racconto del dottor Giuseppe Ferrara, a tutti noto con l’appellativo di professore. Racconto contenuto in un articolo pubblicato il 20 gennaio 1968, cinque giorni esatti dopo il sisma che aveva già devastato la Valle del Belice, dal Corriere della Sera. Un reportage di quelli che si sapevano scrivere all’epoca, firmato dall’allora inviato speciale Mario Bernardin. Sono tante le storie che meritano di essere ricordate in occasione del cinquantesimo anniversario del sisma, ricorrenza che tra pochi giorni vedrà giungere a Partanna per le celebrazioni ufficiali lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Tra queste c’è l’azione condotta da Ferrara: una delle figure più importanti della storia recente di Sciacca. Non aveva ancora compiuto 40 anni, Giuseppe Ferrara, quando gestì alla perfezione l’emergenza dei soccorsi ai feriti, in quel presidio, il vecchio ospedale di via Figuli, che il cronista nel suo pezzo definì “il più efficiente centro sanitario della zona terremotata”. Ospedale che in quei giorni scoppiava, letteralmente, con oltre 150 persone ricoverate, tutte provenienti dalle aree colpite dal sisma. Ferrara era al lavoro, sul tavolo operatorio. Accanto a lui ad aiutarlo altri medici. Meritano anche loro di essere ricordati: Ragusa, Montalbano, Cattano, Alessi. Un lavoro immane, il loro, nel tentativo di strappare alla morte uomini, donne e bambini. “Uno solo di tutti quelli che abbiamo operato è morto”, raccontava Giuseppe Ferrara. “Aveva perso le gambe, e ambedue le arterie erano recise. Facemmo l’impossibile, ma era troppo tardi. Gli altri, senza una gamba, o senza un braccio, li abbiamo tutti salvati. L’intervento più difficile fu una trapanazione del cranio su una bambina di quattro anni che i vigili avevano trovato a Gibellina fra le braccia della madre morta. Ci guardammo sconsolati: ce l’avremmo fatta? Andò bene. Adesso migliora di giorno in giorno. L’abbiamo fatta trasferire, con un elicottero, al centro di rianimazione di Palermo”.
Il professore Giuseppe Ferrara è morto nel 2006. Non fu solo un ottimo medico, ma anche un uomo dotato di una straordinaria sensibilità umana, stimato e protagonista dediche poetiche. “Maistru sini tu di lu cuteddu, e duni aiutu e lustru a sta’ citati; quant’è putenti stu ciriveddu, e tantu amuri hai a li malati; Grazii pi chiddu chi ni fai, Pippu Ferrara, sì prizziusu, sì na’ cosa rara”. Così, nel 1974, Ignazio Russo gli dedicò una poesia. La stessa cosa fece nove anni dopo il poeta sambucese Scibona.
Allievo del dottor Raimondo Borsellino, Giuseppe Ferrara si era fatto le ossa a Sondrio. Nel 1971 a Sciacca intervenne, senza esitazione, su una bambina affetta da una rara patologia renale, salvandole la vita come, qualche mese dopo, in una lettera firmata dal luminare prof. Paride Stefanini a cui poi aveva “dirottato” quella ragazzina, gli riconobbe. Fu, questo, solo uno dei circa 23mila interventi chirurgici che effettuò.
Giuseppe Ferrara fu un uomo, prima che un chirurgo. E Sciacca gli deve tanto, a partire dalla memoria.