Commento dell’arch. Paolo GL Ferrara
<<Ho l’impressione che il Comune di Agrigento sia Comune di quelle tali comunità del Far West in cui le questioni della giustizia potevano essere risolte soltanto perché, ad un certo momento “arrivano i nostri”, con mezzi diversi da quelli legali, diversi da quelli della corretta amministrazione. Ma questo poteva accadere nel Far West, non può accadere nella Repubblica Italiana, dove esistono tradizioni diverse>>. Era il 2 settembre del 1966 quando un deputato all’ARS, nel corso del suo intervento in Assemblea, pronunciò questa frase. La famosa frana di Agrigento era avvenuta circa cinquanta giorni prima, verificatasi in una città che -sin dal 1945- era inclusa nell’elenco degli abitati soggetti a questo tipo di evento naturale (Decreto Cattani-Togliatti).
Agrigento dunque, di cui si torna a discutere oggi riguardo il viadotto Akragas 1, più noto come “viadotto Morandi”. Per l’appunto, Morandi: dopo il fattaccio di Genova, pronunciare “Morandi” ha quasi lo stesso effetto di quando, diciassette anni fa, si esclamava “antrace!”
Era sinonimo di assoluto pericolo, tant’è che la psicosi creatasi arrivò a portare gli statunitensi (e qualche europeo…) a prendere la posta con i guanti e aprirla con la mascherina bocca/naso.
Psicosi di cui, come ha dichiarato il presidente Avenia dell’Ordine degli Ingegneri di Agrigento, Morandi non ha alcuna responsabilità riguardo al degrado del viadotto Akragas 1, così come non ne ha per il crollo a Genova.
Ciò che vorrei porre quale tema di riflessione non è, però, quello della conservazione o demolizione del viadotto. Invero, credo sia più pregnante capire le cause della criticità del ponte, non ponendo, però, l’attenzione dalla sua solidità strutturale bensì su un altro aspetto, quello della maldestra gestione urbanistico/politica nella storia di Agrigento.
Per farlo, niente di meglio che prendere quale riferimento proprio il sopra citato estratto del discorso all’ARS.
Come detto, il viadotto è parte integrante del deprecabile assetto urbanistico di Agrigento, le cui origini hanno le loro fondamenta nella disgraziata e clientelare gestione politica attuata dalla DC sin dal secondo dopoguerra, e certamente sino agli anni in cui ha dominato la scena siciliana.
Un altro passo estratto dal citato discorso all’ARS può essere indicativo: “<<Io mi permetto di consigliare a tutti i colleghi di rileggere, se hanno tempo, gli atti parlamentari di quelle sedute (ndr: il parlamentare si riferisce a quelle riguardanti i rapporti mafia-politica emersi già nel 1963). Oggi c’è la dimostrazione di come la Democrazia cristiana riuscì a fare svanire in una bolla di sapore tutta la fatica compiuta per assestare un colpo al sistema di potere basato sul clientelismo mafioso, sulla violazione delle leggi e dei regolamenti, sull’affarismo e sull’arricchimento personale>>.
Sarebbe interessante che tutti noi rileggessimo quegli atti parlamentari, ciò perché noi tutti abbiamo pagato, e paghiamo ancora oggi, in un modo o nell’altro, gli effetti della compromissione mafia-politica.
Il viadotto Akragas 1 è figlio di questa compromissione. Vediamo perché.
La Commissione Grappelli, preposta a verificare le cause della frana del 1966, pose assoluto vincolo d’inedificabilità proprio nella zona in cui insiste il viadotto, costruito a partire dal 1970.
La relazione dell’indagine tecnico-geologica era chiara sulla situazione di pericolo. A sei anni di distanza, un articolo del Corriere della Sera del 15 dicembre 1972, la richiamava in proprio merito alla costruzione del viadotto: “Villaseta risulta ai limiti di una zona che presenta vistosi aspetti di dissesto geologico ed idrogeologico, che possono essere fortemente esaltati da interventi edilizi o infrastrutturali. Pertanto, in essa non dovrà essere consentita alcuna nuova costruzione o ricostruzione”.
Al momento della pubblicazione dell’articolo, proprio nell’ambito di quel sito, il viadotto era in costruzione, e ciò nonostante l’attuazione del Decreto Gui-Mancini (1968), preposto alla tutela della zona archeologica di Agrigento.
Si tenga presente che lo stesso decreto vietava, tassativamente, ai proprietari di modificare i tipi e le forme di colture, nonché di usare, per la lavorazione dei terreni, mezzi meccanici senza l’autorizzazione della Soprintendenza.
Insomma, ai proprietari/contadini dei terreni su cui insisteva il viadotto era vietato piantare una cipolla. Nel mentre, sopra essi …sorgeva il viadotto, i cui piloni poggiavano su fondazioni scavate direttamente nella necropoli, con l’archeologo Ernesto De Miro che, dalle sedi scavate per il loro alloggiamento, recuperava reperti di grande rilievo.
In sintesi: vietato scavare per pochi centimetri così da potere coltivare; viceversa, licenza di scavare per metri per potere alloggiare le fondazioni dell’infrastruttura. Come mai?
Credo che ci sia poco da commentare se non che, proprio perché si pone in spregio del rispetto paesaggistico, il viadotto Morandi non può essere considerato un’opera d’arte, così come l’ha invece definita il presidente degli Ingegneri di Agrigento. Né potrebbe bastare che lo fosse ingegneristicamente; personalmente, conoscendo le sue opere, penso che quella di Agrigento non sia tra le migliori, neanche dal punto di vista del “genio strutturale”. Le opere costruite, a prescindere che siano edifici o infrastrutture, entrano in rapporto con il paesaggio, creando paesaggistica.
Qui sta il punto: possiamo avere un meraviglioso paesaggio che, inserendovi costruito di mediocre livello, si trasforma in deprecabile paesaggistica; viceversa, lo stesso meraviglioso paesaggio può essere valorizzato dal costruito di qualità, trasformandosi in ottima paesaggistica.
Il viadotto progettato da Morandi ha fatto di peggio: ha reso una già pessima paesaggistica (la muraglia di palazzi ai piedi della città ne aveva già sconquassato il rapporto con i templi) in paesaggistica deleteria (follia inserirlo nella necropoli).
La frana del ’66 e il viadotto Akragas 1 sono legati a filo doppio. Vero è, infatti, che esso nasce ai margini di quell’agglomerato di Villaseta, edificato proprio per ospitare i senza tetto della frana.
Ecco un altro tassello che non combacia: dopo il terremoto del Belìce, anche Agrigento, prima esclusa dall’elenco delle città in zona sismica, allegato alla Legge 1684 del 1962 riguardante i provvedimenti in merito alla costruzione in essa, fu inserita tra le zone a rischio terremoto.
A dirla così, sarebbe lecito credere che tutta la zona comprendente il territorio di Agrigento fosse stata dichiarata antisismica, soprattutto se si considera che lo furono tutti i territori confinanti con il suo (Porto Empedocle, Aragona, Raffadali, etc.). Invece no.
Immaginiamo un puzzle praticamente completato a cui, però, quasi nel suo centro, mancano poche tessere.
Bene, le prescrizioni quale “zona sismica” di tutto il territorio di Agrigento (il puzzle) ne escludevano una minima parte (tessere mancanti), corrispondente all’area su cui sarebbe sorto il Villaggio di Villaseta, destinato agli sfollati della frana.
Assurdo? No, semplicemente mafia + politica.
So bene che si rischia di essere tacciati di dietrologia, ma è comunque indubbio che la storia della moderna Agrigento sia un compendio (negativo) del malaffare edilizio. E il viadotto Akragas 1 ne è solo l’elemento fisicamente più evidente.
Demolirlo? Manutenerlo?
Se ne parlerà per anni e anni.
Piuttosto che dibattere sulla sua demolizione o manutenzione, tutti noi dovremmo meditare sul perché esso nacque lì, e in quel modo, ergendosi esso a simbolo assoluto di ciò che significa vivere nella morsa politica/mafia.
Dovremmo riflettere su quanto potere diamo a chi eleggiamo.
Dovremmo riflettere sul fatto che chi è eletto non ha diritto ad avere alcun potere ma ha il solo dovere di rappresentarci al meglio, facendo il proprio meglio.
Demolirlo? Manutenerlo?
Se ne parlerà per anni e anni.
Nel frattempo, consiglio, a me stesso e a chi lo vorrà, di rileggere gli atti dell’ARS che riportano i dibattimenti, le interrogazioni, le mozioni di tutti quegli uomini che per l’autonomia della Sicilia hanno lottato per davvero.
Come fece Pio La Torre, autore dell’intervento del 2 settembre 1966, da cui qui sono stati tratti alcuni passaggi.
Ne riporto un ultimo, che dell’intervento fu l’incipit, in cui erano (e, purtroppo, sono) evidenziate le contraddizioni della nostra Sicilia:
<<Signor Presidente, onorevoli colleghi, la frana di Agrigento ha posto la Sicilia ancora una volta all’ordine del giorno della Nazione. Si torna a parlare di questa nostra terra e del modo in cui viene governata. La Camera si è riunita in seduta straordinaria, il 4 agosto, ma non già per prendere provvedimenti straordinari per lo sviluppo economico dell’Isola, per l’attuazione del suo Statuto, per risolvere i problemi dell’Alta Corte, per porre fine all’emorragia dell’emigrazione, fronteggiare la disoccupazione.
<<Siamo all’ordine del giorno del Paese per un fatto senza precedenti: un quarto della città di Agrigento è crollato. Ottomila cittadini, da un giorno all’altro senza casa, hanno perduto tutto: gli artigiani le loro botteghe, i commercianti i loro negozi, gli operai il loro lavoro. L’opinione pubblica – sgomenta – si è chiesta come ciò sia stato possibile. A questo angoscioso interrogativo si è tentato di rispondere invocando il fato, il destino e le calamità naturali che l’uomo non riesce a volte a dominare.>>
Il “fato” e il “destino” delle urne elettorali, da cui, spesso in Sicilia, hanno avuto origine le calamità artificiali, causate da chi ci ha governato.