Agrigento

Incontri segreti e attenzione alle microspie, così gli arrestati dell’operazione “Opunzia” temevano di essere intercettati

La loro massima preoccupazione era quella di essere intercettati. Sono i dettagli che sono emersi durante la conferenza stampa che si è svolta al Comando provinciale dell’Arma di Agrigento. Sono stati il colonnello, comandante provinciale dei carabinieri, Giovanni Pellegrino, il comandante del reparto Operativo,  il colonnello Rodrigo Micucci e il capitano Marco Ballan a capo della compagnia di Sciacca a riferire i dettagli dell’inchiesta che oggi ha fatto scattare le manette su alcuni esponenti della famiglia mafiosa di Menfi.  Gli incontri avvenivano solo in luoghi isolati e insoliti. Sarebbero stati privilegiati i maneggi, le abitazioni private e perfino un ambulatorio medico. Erano sopratutto cauti gli indagati coinvolti nell’ambito dell’operazione “Opunzia”, temevano di essere intercettati e avrebbero, perfino, chiesto a delle officine meccaniche compiacenti di eliminare microspie sulle auto da loro utilizzate. Così sono scattate le sette le ordinanze di custodia cautelare in carcere, per le ipotesi di reato di associazione di tipo mafioso, aggravata dall’uso delle armi e dell’aver perseguito il controllo di attività economiche e di appalti pubblici –  notificate ad altrettanti indagati ritenuti appartenenti alla “famiglia” di Menfi. Con il termine in codice, “Opuntia”, si è voluto sottolineare la proliferazione di Cosa Nostra anche dove era stata già estirpata. La presunta riorganizzazione della famiglia di Menfi si era resa necessaria – stando all’inchiesta – in seguito ad un’altra imponente operazione dei carabinieri, condotta nel 2008 sotto il nome in codice “Scatto Matto”. Blitz che, allora, aveva portato alla totale disarticolazione di Cosa Nostra in tutta la valle del Belìce. I carabinieri, attraverso una fitta rete di pedinamenti ed intercettazioni, sono riusciti a documentare come gli indagati avessero riorganizzato la famiglia mafiosa di Menfi, dopo essere entrati – scrivono dal comando provinciale dell’Arma – in contatto con Leo Sutera, ritenuto già capo del mandamento di Sambuca di Sicilia e con Pietro Campo, ritenuto – sempre da investigatori e inquirenti – capo della famiglia mafiosa di Santa Margherita di Belìce e di Montevago. Sutera e Campo, indagati in altri procedimenti, non risultano colpiti da provvedimenti firmati nell’ambito dell’inchiesta portata a termine stanotte.  L’inchiesta si è incentrata principalmente sulla figura del capo della famiglia mafiosa di Menfi, il quale per ricostituire l’organizzazione, colpita nel 2008 dall’operazione “Scacco Matto”, avrebbe in un primo tempo contattato Domenico Friscia,  presunto esponente di vertice della famiglia di Sciacca. Vito Bucceri – colui che stava ricostruendo la “famiglia” di Menfi, poi diventato collaboratore di giustizia – avrebbe poi sondato il terreno con il medico Pellegrino Scirica per comprendere se lui avesse preso o meno le redini dell’organizzazione in un momento di sbandamento. Infine, prima di muoversi per tessere la sua ragnatela di contatti con picciotti a sua disposizione, ha chiesto – prosegue la ricostruzione effettuata dal comando provinciale dell’Arma – ed ottenuto l’autorizzazione di Pietro Campo in occasione di due incontri avvenuti rispettivamente il 30 giugno e il 9 luglio 2015.

 

 

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