Arrivarono in quattrocento all’alba del 6 marzo 1861 a Santa Margherita Belice. Quattrocento uomini in uniforme: militare soprattutto, ma anche giovani della Guardia nazionale. Andarono di casa in casa, di masseria di masseria, da un pagliaio ad un altro, nei catoi, ovunque. La caccia ebbe fine dopo tre giorni con sessanta arresti e in sessanta case le donne si vestirono di nero perché allora il lutto non si portava solo per i morti.
I soldati passarono tra le macerie di quello che restava del palazzo comunale, saltato il giorno prima per lo scoppio di una mina. E quegli uomini catturati ora erano in catene e diretti nelle carcere di Girgenti (oggi Agrigento). Erano accusati di quella esplosione e distruzione, ma soprattutto di strage.
Tutto iniziò con un omicidio, il primo omicidio della mafia dei feudi, quattordici giorni prima della proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) e cinque mesi dopo il plebiscito unitario siciliano (21 ottobre 1860). Fu certamente il primo delitto della mafia in Sicilia dopo l’annessione dell’Isola alla nuova Italia.
La sera del 3 marzo 1861, a Santa Margherita Belice, tre fucilate uccisero a pochi passi da casa il dottore Giuseppe Montalbano, 42 anni. Aveva toccato gli interessi di una potente famiglia di feudatari.
Giuseppe Montalbano dopo avere partecipato ai moti rivoluzionari siciliani del 1848 con il suo concittadino Giovan Battista Di Giuseppe e il Montevaghese (cittadini di Montevago), era diventato celebre non solo nella sua patria ma in tutta la Sicilia. Venne arrestato ed esiliato. Tornato in Sicilia, da fervente mazziano, Montalbano, dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala, formò una squadra di picciotti e si unì a Partanna alla colonna del Colonnello Oddo per raggiungere Garibaldi a Palermo. Nel 1861, tornò a Santa Margherita e si rese conto che la povera gente del suo paese era ostaggio dell’avida nobiltà locale. Divenne capo del locale Partito polare e si mise subito alla testa dei contadini. Dopo il decreto garibaldino del 2 giugno 1860 — relativo alla ripartizione delle terre demaniali ai contadini — rivendicò a nome dei contadini margheritesi tre feudi spettanti al Comune, ma usurpati dalla principessa Giovanna Filangieri con la complicità del ceto agrario e baronale, già legato al governo borbonico. Rivendicando per loro i feudi Calcara, Ficarazzi ed Aquila il dottore Montalbano era diventato il nemico della mafia locale.
Chiedeva che venissero tolti a principessa Giovanna Filangeri quelle terre e assegnati al Comune. Minacciava di guidare i contadini all’occupazione dei feudi.
Venne trovato morto la sera del 3 marzo 1861.
Il delitto fu preceduto da una serie di minacce e avvertimenti a Montalbano e alla sua famiglia.
Attraverso le fonti d’archivio, Montalbano nipote ha sostenuto la tesi che «nel marzo 1861 e nei mesi successivi gli organi competenti — procuratore del Re presso il Tribunale di Sciacca, polizia e carabinieri dell’intero circondario — non svolsero alcuna attività per scoprire i colpevoli dell’assassinio di mio nonno».
L’indomani, 4 marzo, dopo l’accompagnamento funebre, i sostenitori del Montalbano, capo del Partito Popolare locale, assaltarono il municipio e il Circolo del Civili e il giorno 5 piazzarono e fecero esplodere una mina nel Palazzo Comunale, dove si erano rifugiati alcuni tra coloro che erano stati indicati da vari testimoni quali esecutori del criminale agguato. L’esplosione provocò il crollo di un’ala del Palazzo. La rivolta durò due giorni e fu strage. Morirono Michele Di Giovanna, Giuseppe Di Prima, Francesco Neve, Giuseppe e Leonardo Cattano, Pietro Giambalvo e Costantino Chetta.
Un giovane di quindici anni, Antonino Randazzo, fu ucciso da tale Don Pietro Giambalvo mentre dal tetto del Municipio sparava contro la folla dei rivoltosi. Poco dopo Pietro Giambalvo saltò per aria e morì quando la mina esplose.
La maggior parte dei sette uccisi erano direttamente estranei al delitto Montalbano, ma erano noti per la vicinanza con la mafia dei feudi del Belice.
Così il sei marzo arrivarono i soldati e arrestarono sessanta persone.
Quei medesimi organi di governo inerti rispetto al delitto Montalbano, furono solerti nel reprimere brutalmente la sommossa di Santa Margherita Belice.
I braccianti avevano subito denunciato mandanti, movente ed esecutori dell’assassinio di Giuseppe Montalbano, ma non furono ascoltati. Vennero invece perseguitati perché avevano lottato nella speranza di conquistare la libertà dal latifondo, contro prevaricazione della mafia.
Nel 1864 si svolse a Girgenti il processo e la sentenza fu dura. Vennero condannati 22 degli accusati. Vi fu una condanna a dieci, tre a quindici e due a venti anni di lavori forzati e altre sedici condanne ai lavori forzati a vita.
Quei tragici eventi sono ancora ricordati con alcuni versetti: “Chianciti Donna Marta, chianciti a chiantu ruttu, vistitivi di luttu, chi lu pudditru è mortu e nun ritorna chiù”. Donna Marta era la moglie di Pietro Giambalvo, soprannominato “lu Pudditru”, ritenuto uno dei responsabili del delitto Montalbano.
Altri versetti ricordano la morte di Costantino Chetta, ucciso per sbaglio: “Chianci la so mamma, lu visu ch’era fino, a sulu annintuvarlu lu beddu Costantinu”.
I fatti del 4 e 5 di marzo 1861 portarono grave danno e desolazione nella popolazione margheritese. L’agitazione degli animi durò a lungo. Molti abitanti lasciarono il paese, sicché il numero della popolazione diminuì considerevolmente.
Elio Di Bella