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Matteo Messina Denaro, l’ultimo stragista di Cosa Nostra e la sua influenza su Sciacca

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Oggi la morte di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss di Cosa Nostra aveva 61 anni e si trovava nel reparto per detenuti dell’ospedale de L’Aquila, dove era ricoverato per un tumore al colon. A gennaio di quest’anno la cattura a Palermo, davanti la clinica Maddalena, dove andava a curarsi. Con la sua morte rimangono nel buio e nel silenzio segreti, nomi e responsabili di innumerevoli crimini. Fin dalla sua cattura ha dichiarato che non avrebbe parlato. E così è stato.

Dopo Riina e Provenzano, era Messina Denaro il capo dei capi. Lui il “puparo”. Prima di prendere il posto di Riina, ne era il più fedele ambasciatore e portavoce.

Come quando Cosa Nostra voleva dare un segnale alla Stato e alla polizia penitenziaria. E di mezzo, in questo caso, c’era pure Sciacca.

Diverse sentenze per mafia hanno dimostrato come il territorio saccense e agrigentino fosse centro nevralgico degli affari di Cosa Nostra. Ne è un esempio la sentenza Avana. Lì si evince il ruolo di Matteo Messina Denaro e i suoi rapporti con il contesto mafioso saccense.

Dalle intercettazioni relative al processo Avana, si viene a conoscenza che Cosa Nostra volesse attuare un’azione ritorsiva contro lo Stato. Secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, all’indomani delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, nel carcere di Pianosa le guardie avrebbero malmenato alcuni reclusi per mafia.

In quel momento Cosa Nostra era in piena guerra contro lo Stato e in crisi la leadership sulla popolazione carceraria mafiosa che chiedeva condizioni diverse e migliori, soprattutto nel penitenziario dell’isola di Pianosa, il carcere dei mafiosi chiuso nel 1998. Gli obiettivi scelti erano alcuni agenti della Polizia Penitenziaria e, tra questi, tre di loro era residenti a Sciacca.

Era Messina Denaro a fare il “puparo”, a dirigere le operazioni, dietro stretto controllo di Riina, almeno fino alla sua cattura avvenuto nel gennaio del ‘93. Poi è lui ad assumere il comando dell’organizzazione e delle operazioni. Da una intercettazione inserita nella sentenza Avana si evince che Matteo Messina Denaro aveva spedito un “pizzino” con il quale chiedeva ai suoi uomini di Agrigento di acquisire informazioni su alcuni agenti residenti a Sciacca.

Si legge nella sentenza: “Appresosi che presso l’Istituto penitenziario dì Pianosa venivano commessi eccessi nei confronti dei detenuti imputati o condannati per associazione mafiosa, Brusca Giovanni, Bagarella Leoluca ed altri fedelissimi di Totò Riina, al fine di porre in essere una esemplare azione ritorsiva e di dare allo Stato un preciso “segnale”, avevano elaborato un progetto di eliminazione “a catena” di agenti di custodia originari di paesi della Sicilia occidentale, che prestassero o avessero prestato servizio in quell’istituto”.

In una conversazione intercettata tra Gioacchino La Barbera e Antonio Gioè, killer fedele ai corleonesi, risalente al 9 febbraio ’93, i due si aggiornano sullo stato del piano:

La Barbera – Matteo che dice?
Gioè – Come Matteo che dice?…
[…]
La Barbera – Le due guardie?
Gioè – Le due guardie che danno legnate.
La Barbera -In provincia di Trapani stanno?
Gioè -Ce ne sono quattro per la provincia di Trapani, di quelle che danno legnate. Incappucciate.
La Barbera – Quelle della Pianosa che danno legnate. Dice che sono incappucciate? O sono Trapanesi?
Gioè: No, perché c’è una guardia (incomprensibile), della provincia di Trapani che viene dalla Pianosa e gli ha raccontato tutte cose…(incompr. ) una decina, no? Quattro sono della provincia di Trapani.
La Barbera – Uh! Uh! Tutti quei nomi di là ancora non sono pronti?…
Gioè – Eh! Ce ne sona quattro della provincia di Trapani, circa tre di Sciacca e uno di Palermo.
La Barbera – Di Palermo? Di dove?
Gioè – Dobbiamo vedere di dov’è. Quelli che hanno preso in provincia di Trapani li hanno intercettati. Ora per quelli di Sciacca, dove stanno. Già loro di un paio sanno dove stanno. Le porte, le case, tutte cose… campanello, … minchia questo appena arriva, … a uno se lo devono portare vivo e non si deve trovare più… Lo devono trovare fatto a pezzi con la roncola
”.

L’attento ai danni degli agenti residenti a Sciacca non verrà mai attuato.

Anni dopo l’Italia e la Sicilia lo ritroverà in manette a Palermo, davanti alla clinica medica dove per anni si era curato. A distanza di 9 mesi, la sua morte porta con sé i misteri e i dubbi sulla sua cattura e sulla sua latitanza, certi che al boss di Cosa Nostra gli appoggi, anche a Sciacca, non mancavano.

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